top of page

Il cinema d’autore in Europa tra gli anni ‘60-‘70. Il caso di Ingmar Bergman

Aggiornamento: 17 lug 2024

Negli anni Sessanta esplode poi il fenomeno del cinema d'autore i cui protagonisti sono investiti di un prestigio culturale, di un'aura artistica e di un'attenzione da parte dei media sino allora sconosciuta, salvo poche eccezioni, per un regista cinematografico. Nel complesso, il lavoro dell'autore tende a estendersi a tutte le fasi della lavorazione del film, che egli controlla in prima persona, con una particolare attenzione alla sceneggiatura spesso da questi firmata o co-firmata. I film d'autore tendono a liberarsi da scorie di tipo commerciale e presentano contenuti spesso complessi, espressi attraverso una forma originale, che pur non rinunciando alla dimensione narrativa esplora nuove possibilità di espressione: ne nascono così degli «oggetti culturali» a tutti gli effetti, al pari di un romanzo o di un dramma teatrale. La complessità dei contenuti e l'originalità della forma impongono un nuovo tipo di spettatore, invitato a vivere l'esperienza filmica non solo come ricreativa ma anche, e soprattutto, come occasione di accrescimento culturale. Di fronte al film d'autore, lo spettatore non è più un soggetto passivo, ma qualcuno invitato a partecipare attivamente alla sua decifrazione semantica e culturale.  Infine, il film d'autore è tale anche perché parte di un'opera complessiva, gli altri film dello stesso autore, con cui dialoga riecheggiandone contenuti e forme, rendendosi così riconoscibile come un film di Bergman o di Buñuel, di cui testimonia una ben precisa «visione del mondo», così come una «visione del cinema».


Ingmar Bergman 

Regista svedese, prima teatrale, poi anche cinematografico esordisce nel panorama del cinema internazionale ben prima dei decenni che stiamo affrontando nelle nostre rassegne, con nel 1945 con Kris, storia di un tormentato rapporto fra madre e figlia.

Il naturalismo della scuola cinematografica svedese, il «realismo» di quella francese degli anni Trenta, l'opera di Dreyer, la grande tradizione del teatro - cul Bergman continuò a dedicarsi con passione e intensamente - confluiscono progressivamente in uno stile intenso, in cui realismo ed espressionismo paiono fondersi in una grande unità espressiva. I temi della crisi dei valori morali e dei sentimenti, con implicazioni spesso religiose legate all'«assenza» e al «silenzio di Dio», del dubbio esistenziale, della difficoltà della vita di relazione, dei conflitti generazionali, della solitudine - spesso quella femminile - e della finitezza dell'uomo, dell'immanenza della morte, delle pulsioni che si nascondono dietro una maschera di rispettabilità, si mescolano in una rappresentazione che lavora sul tempo estendendone e fissandone la durata.

Nella metà degli anni Cinquanta Bergman realizza due dei suoi capolavori che condensano la sua intera poetica: Il Settimo Sigillo e Il posto delle Fragole. Queste due opere fanno di Bergman uno dei più apprezzati registi del cinema d'autore internazionale, ruolo che rafforzerà col suo lavoro negli anni Sessanta, attraverso una serie di film che depurano soprattutto la struttura drammatica e la forma espressiva dei temi affrontati, ricorrendo a pochi personaggi e ambienti, e a una rappresentazione essenziale che richiede una particolare attenzione da parte dello spettatore, una sua disponibilità totale a cogliere tutti i risvolti, impercettibili, del dramma sotteso alle immagini. Progressivamente i film del regista si fanno quasi «astratti» nel voler sintetizzare, in una situazione esistenziale dilatata oltre i limiti delle convenzioni drammaturgiche, i gravi problemi della società contemporanea, visti attraverso l'esperienza dell'individuo, centro focale di tutta la speculazione filosofica e narrativa del regista. 

La rappresentazione è sempre più intensa, nel tentativo di caricare ogni immagine, ogni sequenza, di nuovi significati; ma la metafora, il simbolo, nascono da quel «realismo» minuzioso che rimane la caratteristica peculiare dello stile di Bergman, quel suo indagare con la cinecamera i volti, gli sguardi, i silenzi, gli ambienti vuoti, disadorni, il paesaggio «scarnificato», alla ricerca dell'essenza del reale, del suo spessore «metafisico».

In questa essenzialità, il discorso si fa più profondo e angosciante, problematico, persino provocatorio. Anche grazie all'insostituibile lavoro del direttore della fotografia Sven Nykvist, lo stile di Bergman attribuisce una grande importanza all'uso della luce, fatta spesso di intensi contrasti, e dei primi piani del volto umano, la sua macchina da presa è sovente a ridosso dei personaggi. 

Fondamentale è per Bergman il lavoro degli attori, gli stessi che ritornano di film in film, che egli considera il materiale più prezioso di cui un regista possa disporre, che talvolta invita a rivolgersi direttamente alla macchina da presa e, quindi, allo spettatore.

ree

Commenti


  • Instagram
  • Spotify

© 2024 by Amaseo's house

bottom of page