Orson Welles e Quarto Potere
- Alessia Goisis
- 3 nov 2022
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 17 lug 2024
Cinema “barocco” e della metafora
Orson Welles può essere definito «barocco», per quel tanto di stravagante e di abnorme, di fantasioso e di contorto, di deformato e di sbalorditivo che si riscontra nei suoi film pieni di immagini che aggrediscono letteralmente lo spettatore (invece di lasciarlo indisturbato a godersi la storia come accadeva nel cinema classico).
D'altronde è lo stesso Welles che ebbe a dichiarare nel 1963 di avere «tendenze barocche», aggiungendo: «Cerco di arricchire il più possibile lo schermo, perché il film in se stesso è una cosa morta, e almeno per me l'illusione della vita svanisce presto quando il tessuto è sottile».
L'uomo e la società si riflettono nell'opera del regista non mai direttamente, ma attraverso un rigoroso filtro formale, che ha la precisa funzione di « deformare» i dati immediati della conoscenza sensibile per metterne in maggior luce gli elementi rivelatori. Il suo discorso non può quindi essere diretto, chiaramente esplicito, ma deve svolgersi all'interno di una struttura drammatica che continuamente rimanda allo «spettacolo» come momento privilegiato dell'indagine critica.
Se si vuole dare una definizione del cinema wellesiano, approssimativa e sommaria come quella già usata di «cinema barocco», ma indicativa non solo di un gusto ma anche di una posizione artistica e culturale, di un rapporto fra vita e arte, si potrebbe usare il termine di «cinema della metafora».
Ogni film di Welles è infatti un tentativo di «metaforizzare» la realtà, di arricchirla di molteplici elementi «antinaturalistici», di prospettarla in termini di contrasto delle idee e dei significati, tali da superare l'immediatezza della visione, lo stadio di pura descrizione di fenomeni e comportamenti, per prospettare dei problemi di fondo che coinvolgono la natura stessa dell'uomo, la sua posizione nella società, le sue idee, l'eterno problema del bene e del male, della responsabilità individuale e collettiva, in un contesto che tuttavia non annulli il dramma delle passioni e il contrasto delle personalità, ma anzi da queste trovi origine e sviluppo, a queste ritorni nel corso del dibattito.
È un cinema drammatico, a volte persino melodrammatico e grandguignolesco, che rompe con l’illusione di realtà e si pone contro il Neorealismo e tutti i realismi, più o meno naturalistici o veristici, che si sono affermati nelle cinematografie europea e americana durante e dopo la Seconda guerra mondiale.
La figura di Orson Welles
Nato nel 1915 nel Wisconsin e morto a Los Angeles nel 1985, Orson Welles
esordisce come attore professionista a soli sedici anni, a metà degli anni Trenta inizia una intensa attività teatrale, in qualità di attore, scenografo, regista, affermandosi per il suo stile irruente, il coraggio intellettuale, l'anticonformismo, l'impegno politico, come tra gli altri testimoniano gli allestimenti shakespeariani del Macbeth (1935) - con soli attori di colore e ambientazione haitiana - e di Caesar (1937) - collocato nel presente e con espliciti riferimenti al fascismo.
La popolarità raggiunta da Welles crebbe quando l'emittente radiofonica CBS gli offrì una serie di adattamenti in diretta di classici della letteratura che sarebbero andati in onda nella fascia serale di massimo ascolto.
Il 31 ottobre 1938 tocca alla Guerra dei mondi di H.G. Wells: trovatosi di fronte a un copione insoddisfacente, Welles decide, all'ultimo momento, di costruire il suo radiodramma come una serie di breaking news che, interrompendo un fantomatico programma musicale, annunciavano una vera invasione aliena. Centinaia di migliaia di ascoltatori scambiarono la finzione per realtà e furono gettati nel panico. In una sola notte, Welles divenne, nel bene e nel male, uno degli uomini più famosi del paese e mise in luce tutto il potere dei nuovi media.
Pochi mesi più tardi la RKO gli offrì un contratto come regista che gli consentiva - cosa più unica che rara a Hollywood - un'assoluta libertà d'azione. Così nel 1941 porta sugli schermi Quarto Potere (che è approfondito nelle pagine a seguire)
Il suo secondo film, L'orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942), che descrive l'ascesa e la caduta di una famiglia facoltosa agli inizi del secolo, alle soglie di quella industrializzazione della società americana che porrà le basi per il suo sviluppo capitalistico.
Nelle intenzioni di Welles il film avrebbe dovuto avere un tono e un finale assai cupi, segnato, quest'ultimo, dalla solitudine e dalla morte dei suoi diversi personaggi.
La RKO non ne volle sapere, fece rimontare il film, lo tagliò e aggiunse nuove sequenze, presentandolo in una versione di 88 minuti (contro i 132 previsti da Welles).
Questo secondo film - che nonostante le manipolazioni rimane un capolavoro - si tradusse in un insuccesso commerciale e determinò la fine dei rapporti di Welles con la RK0 (e in buona sostanza anche con l'industria hollywoodiana).
Nasce così nei fatti il mito di Orson Welles: regista «maledetto», invadente, dittatore, autore assoluto delle loro opere, in perenne conflitto con i produttori, insensibile alle ragioni dell'industria e del commercio, e per questo ben presto perseguitato, costretto progressivamente al silenzio.
Quarto potere
Titolo originale: Citizen Kane
Anno: 1941
Regia: Orson Welles
Sceneggiatura: Herman J. Mankiewicz, Orson Welles
Fotografia: (b/n), Gregg Toland
Scenografia: Perry Ferguson, Van Nest Polglase
Musica: Bernard Herrmann
Montaggio: Robert Wise
Interpreti: Orson Welles (Charles Foster Kane), Joseph Cotten (Jedediah Leland), Dorothy Comingore (Susan Alexander Kane), Agnes Moorehead (Mary Kane), George Coulouris (Walter Paris Thatcher), Everett Sloane (Mr. Bernstein).
Premi: premio Oscar 1942 per la migliore sceneggiatura originale.

Quarto potere, dopo una violenta campagna scandalistica e intimidatoria, è accolto dalla critica, ma non dal pubblico, come un capolavoro. Ciò che colpì, e provocò le polemiche cui si è accennato, fu, a un primo livello, il contenuto drammatico dell'opera, quel ritratto a tutto tondo, conturbante e profondamente tragico, d'un magnate del giornalismo e dell'industria editoriale americana, facilmente identificabile con William Randolph Hearst, la cui mancanza di scrupoli, le cui iniziative avventurose, spregiudicate, ciniche, contribuirono a rafforzarne il potere economico e politico, a farne il simbolo per eccellenza del capitalismo aggressivo.
Welles cerca, già in questo suo primo film, di dilatare il più possibile i termini storici e cronologici di una vicenda personale e di un protagonista della vita sociale, in modo da coinvolgere nel giudizio su un uomo il giudizio su una società (vista nel corso di cinquant'anni della sua storia).
Nel portare a termine questo progetto il regista sconvolge le regole codificate nel cinema hollywoodiano, attingendo a piene mani dall’espressionismo e al grande realismo dei classici del muto. La sua abilità tecnica, così come quella espressiva, è straordinaria: è insomma un’opera prima che ha già il carattere della summa registica, del vero e proprio trattato di mise en scène cinematografica.
Struttura
La storia del potente Charles Forster Kane, che con la sua catena di
giornali e il suo diretto ingresso in politica influenzò non poco le sorti del paese, inizia con la morte dell'uomo e procede in modo frammentario, come un puzzle, attraverso il racconto della sua vita che ne fanno prima un cinegiornale e poi (tramite una serie di flashback) cinque personaggi che gli sono stati vicino.
Ne emerge un quadro contraddittorio che fa di Kane un uomo dalle molteplici personalità - almeno una per ogni personaggio che lo racconta - in cui si scontrano il gigantismo del suo potere pubblico e la fragilità della sua esistenza privata.
Trovate visive:
-Obiettivi grandangolari: abbracciano una grande porzione di spazio e deformano la prospettiva;
-Profondità di campo: tiene a fuoco sia ciò che è in primo piano, sia ciò che è sullo sfondo, che acquista così un’inusitata importanza (si pensi alla famosa inquadratura articolata su tre piani in cui sullo sfondo il piccolo Kane gioca nella neve, in primo piano la madre e Thatcher, e in mezzo il padre che cerca di esporre le sue rimostranze).
-Long take e piani sequenza: prolungano il tempo le inquadrature invitando lo spettatore ad un’osservazione più attenta.
-Angolazioni dal basso e punti di vista innaturali: da una parte accentuano il gigantismo del protagonista, dall’altra - inquadrando i soffitti - gli creano attorno uno spazio opprimente, quasi una gabbia esistenziale.
-Vertiginosi movimenti di macchina che attraversano un ambiente passando da piani generali ad altri particolari.
-Effetti di montaggio che ricordano l’estetica delle attrazioni del cinema muto.
-Scenografie complesse scandite nei loro innumerevoli particolari.
-L’uso della luce che scandisce certi chiaroscuri di provenienza espressionista (corrente tedesca degli anni Venti - si vedano film come Nosferatu di Murnau - da cui, tra l’altro attinge anche il film contemporaneo The lighthouse di Robert Eggers)
L'allontanamento dagli affetti familiari segna profondamente il destino di un uomo che, nelle parole dell'amico Leland, cercava unicamente l'amore e il cui dramma «è di non averlo ottenuto, perché [...] lui non ne aveva da darne. Lui amava Charlie Kane e anche a sua madre voleva molto bene.».
Anche il primo matrimonio di Kane con la nipote del presidente degli Stati Uniti, poi morta in un incidente stradale insieme al figlio, è sintetizzato in un incalzante montaggio di inquadrature simili in cui dapprincipio la coppia appare fisicamente vicina, in una luce soffusa e impegnata in conversazioni amorevoli, per poi occupare, nel volgere di poco tempo, sedie ai lati opposti del lungo tavolo della colazione, mentre affronta discorsi politici con crescente acredine e sostiene infine un silenzio teso e fatto di sguardi biechi dietro le pagine di due giornali concorrenti.
Una scena analizzata
Nella scena in cui Kane sessantenne distrugge la camera di Susan, che lo ha abbandonato non si può parlare di piano sequenza in senso stretto (possiamo contare cinque inquadrature).
Tuttavia è evidente la volontà di Welles di reggere tutto il peso dell’emotività della scena essenzialmente sulla sua irruente performance, e gli stacchi di montaggio appaiono puramente funzionali.
La scena infatti è stata girata nella modalità tipica di una riprese televisiva multicamera: un unico crack con quattro cineprese in funzione; una scelta dettata sicuramente da motivazioni d’ordine produttivo (la difficoltà di ripristinare la scenografia dopo la devastazione operata dall’attore), ma interpretata con grande essenzialità ed efficacia.
In questa scena, come in moltissime altre, troviamo quindi la capacità del regista di intuire il punto in cui performance teatrale dell’attore e la sua interpretazione cinematografica si possono congiungere per moltiplicare la forza emozionale della scena.
Nella quarta inquadratura, per esempio, la sensazione di profondità offerta dall’obiettivo grandangolare viene sfruttata fino in fondo, portando l’attore da un piano americano fino a una figura intera, e quindi un rapido avvicinamento fino al dettaglio del braccio della mano.
Si noti ancora l’utilizzo dell’inquadratura dal basso e del soffitto di cui si è già parlato nelle trovate visive.
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